Miracle mile/ Soluzione finale

Di recente mi è capitato di captare delle colonne sonore che mi hanno ricordato quella di “Miracle mile“, uno dei film della mia vita e che ha uno score stupendo, e che appunto mi è risuonato in odierni film e fiction, ad esempio in uno dei temi ricorrenti in “Doc – nelle tue mani” fiction della Rai, in un breve tema all’inizio di “Palm Springs” del 2020, mi è successo davvero tante volte, ma non ne ho preso nota. Riporto quello che scrissi qualche anno fa su questo film di una potenza e bellezza inestimabili.

Questa è una delle inquadrature più belle e magiche che abbia mai visto, magiche per quello che sa dare il cinema, di quei momenti che anche se la vita non è il massimo, il solo fatto di poter guardare quel momento diventa l’apoteosi, e anche il suo ricordo fa lo stesso effetto.

Questo è l’appuntamento più indimenticabile: l’orologio-display enorme rotante che distrugge la prospettiva visiva per un attimo, la sveglia ferma nell’altra casa, un sogno e un incubo insieme, la realtà non si percepisce mai in questo film, non si distingue più. La stessa inquadratura magica 3 ore e 50′ dopo, dove di conosciuto c’è solo il tempo, tutto il resto è assurdo e sempre più sbagliato e senza senso, ma la corsa è iniziata, per raggiungere lei, contro i minuti, contro la fine, contro il mondo che crolla e fa schifo, sempre di più, ogni secondo che passa.

È inspiegabile quello che si prova. Io prima ero in bagno e dal salotto arrivava una musica che mi ha ricordato il tema dei Tangerine dream, e ho rivisto tutto in un attimo, l’orologio, loro due, l’inizio e la fine, e mi è venuto da piangere.

Disturbi piscologici: tornare a essere liberi

Premetto di parlare da paziente e non da medico.
Ho sofferto di attacchi di panico da quando avevo 16 anni fino a 33 anni, quando ho deciso di iniziare un percorso di psicoterapia con uno psichiatra, coadiuvato da un farmaco antidepressivo, che tuttora, a 37 anni, continuo a seguire.
Scrivo questo post perchè io sto bene, sono addirittura felice e soprattutto sono libera dalla schiavitù che per più di 15 anni mi ha affossata, mi ha tolto qualsiasi libertà, e vorrei che potesse aiutare chi si trova in situazioni simili a quella che ho vissuto io e ha paura di curarsi.
I disturbi psicologici/psichiatrici sono malattie e per stare bene sono necessarie delle cure.
Non vanno via da soli, non servono delle carezze o dei consigli degli amici, ma vanno trattate allo stesso modo di qualsiasi altra patologia fisica.
Bisogna farsi visitare da un medico e, a seconda dell’esito della visita, seguire una terapia, magari solo di sedute di dialogo o se necessario supportata dall’assunzione di un farmaco. Come si fa nei casi di diabete, ipertensione arteriosa, insufficienza renale e così via con l’infinità di malattie esistenti.
Per quella che è la mia esperienza, da quando sono stata male, che ero un’adolescente, fino a quando ho deciso finalmente di intraprendere una cura, avevo il terrore di assumere un farmaco antidepressivo o ansiolitico, mi rifiutavo, per una serie di motivi.
Avevo paura che mi avrebbe cambiato, che non sarei più stata io, con le mie idee e ideali, le mie emozioni, i miei pensieri.
Avevo paura che iniziando a vedere uno psichiatra e assumere una medicina avrei sancito di essere pazza, matta, lo avrei proprio reso palese a me stessa e a tutti quelli che mi conoscevano. Una fuori di testa, una schizzata, una persa, irrecuperabile, e che quindi se inziavo a curarmi ero folle davvero, malata, gravemente, da manicomio.
Avevo paura che durante le sedute con uno psichiatra sarebbero potuti saltare fuori ulteriori problemi che magari non realizzavo e sarei stata ancora peggio.
Avevo paura degli effetti collaterali indicati sui bugiardini dei farmaci che avrei potuto assumere.
E così, a causa di tutti questi timori ho vissuto gran parte della mia gioventù stando male, con un sottofondo perpetuo di angoscia, di ansia, di pensieri frenetici opprimenti quando la notte mi mettevo a dormire, pensando alla paura per la morte dei miei cari, alla mia, alle malattie, all’infinito, all’origine della vita, alla fine, in un circuito continuo e irrefrenabile che mi annichiliva e faceva soffrire. Avevo sempre male alla fronte per tutto quel sovraccarico di pensieri marci e tremendi.
E oltre a questo, non facevo niente di quello che desideravo, tutto mi risultava inaffrontabile.
Non sono nemmeno andata in una gita delle superiori di 3 giorni perchè avevo il terrore di stare male, che mi venisse il panico lontano da casa, viaggiando.
Una mia professoressa mi disse che se fossi stata male sarebbe venuta con me in treno per riportarmi a Modena, ma avevo il terrore lo stesso.
Non desideravo altro che viaggiare ma non riuscivo a farlo, non ci provavo nemmeno per la paura che mi bloccava.
Non desideravo altro che suonare, ma dopo gli attacchi di panico dovevo farmi accompagnare alla scuola di batteria perchè avevo paura a fare il viaggio da sola in autobus. Poi avevo paura a guidare la macchina per andare a fare le prove con il mio gruppo. Poi volevo andare a fare l’università di lettere a Bologna ma avevo paura a prendere il treno e allora ho cambiato e sono andata a Reggio Emilia a fare Scienze della comunicazione perchè non c’era l’obbligo di frequenza e era più vicina così mi potevano accompagnare a dare gli esami.
Volevo andare a studiare negli Stati Uniti, volevo andare a delle cene fuori città, volevo andare a fare un giro in centro, ma evitavo tutto, non era nemmeno contemplabile l’idea di spostarmi da sola.
Pochi anni fa, prima della cura, avevo paura a transitare in auto per andare al lavoro su un cavalcavia che avevo sempre percorso per almeno 20 anni, poi un bel giorno mi sono bloccata, avevo paura che il mio cervello potesse impazzire e farmi sterzare per buttarmi giù e non l’ho più fatto.
Allungavo di un quarto d’ora la tratta per arrivare al lavoro evitando quel ponte.
Ed è stato proprio questo episodio a farmi decidere di rivolgermi a un medico.
Volevo la mia libertà, essere libera di guidare, viaggiare, non volevo più vivere con quella perenne inquietudine addosso, con quella nebulosa di pensieri negativi sempre in testa.
Ho fatto delle sedute con tre psichiatri poi ho trovato il mio, da cui vado dal 2016. Anche questo è molto importante e fondamentale: trovare il medico giusto. Se si è insoddisfatti bisogna cercarne un altro, e non rinunciare al volersi curare. Quello giusto si riconosce, fa stare meglio già dalla prima seduta.
Io adesso sto bene e tanto. E sono sempre io, la stessa, con i miei ideali, idee, interessi, emozioni. La stessa persona, ma senza più quella zavorra di malessere opprimente.

Mi sono dilungata, ma ci tenevo a raccontare delle situazioni in cui magari in tanti si ritrovano e le continuano a subire perchè sono bloccati, e spero che questo mio scritto possa essere loro utile.
Che si tratti di attacchi di panico, di depressione più o meno grave, di deliri persecutori, di qualsiasi disturbo psichiatrico.
Spero anche che in questo paese si comincino a trattare i disturbi psichiatrici in maniera più accurata e attenta, e che venga attuata una comunicazione a riguardo più presente, diretta, semplice, come per qualsiasi altra patologia.
Che nessuno debba più sentirsi pazzo, solo,l’unico, vergognarsi, nascondersi, trascurarsi per soffrire di una malattia di cui si parla poco e viene considerata strana, deplorevole, quando invece è come qualsiasi altra.
Gli esseri viventi si ammalano, piante, animali, esseri umani, e per stare bene ci si cura, non c’è nulla di cui vergognarsi.
E se è necessario ricorrere a un supporto farmacologico non bisogna rifiutarlo, perchè siamo anche fatti di chimica, per la maggior parte di H2O, oltre che di carne, di anima, di aria, di elettricità e, non da trascurare, di serotonina.
Questi disturbi spesso sono clinicamente non gravi, ma molto invalidanti per chi ne soffre. E anche per le persone a loro vicine.
Soffriamo noi per primi, ci logoriamo, non viviamo, ma logoriamo e facciamo soffrire anche chi tiene a noi.
Bisogna pensare anche a questo.

Metto una scena da “Maledetto il giorno che ti ho incontrato” di Carlo Verdone, regista che amo e che in tanti suoi film ha trattato il tema dei disturbi psichiatrici, in modo sempre magistrale e ammirevole.

Joker/ Angst salsiccia al bar

Todd Phillips: i suoi primi due lavori sono un documentario su GG Allin e un altro documentario sulle confraternite americane e il loro lato marcio cattivo.
Probabilmente già da piccolo aveva il debole per il Joker e voleva dare una motivazione al suo vendicarsi e al cercare il riscatto dal suo vissuto e dalla società, e lo ha realizzato scavando nel personaggio, così come lo ha fatto per i protagonisti delle sue due prime pellicole.

la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir, compositrice anche delle musiche di Chernobyl (e si sente),  è splendida e si distacca da quella altrettanto sublime de “Il cavaliere oscuro” che ha creato una serie infinita di clonazioni, e anche da quella di Inception sempre di Zimmer. Ed è stato proprio Phillips a volere lei.
il malessere che lascia questa colonna sonora, di strascico perpetuo e non lavabile attaccato addosso, la potenza di un film.
Scena del bagno assoluta estasi audiovisiva, le sue movenze sono ipnotiche e incantevoli e non è vero che sono goffe, ma pura grazia fisica e corporea, ai livelli di Michael Jackson.
Joker difende gli umiliati e soggiogati e deboli, lui non voleva quello che ne consegue, quella è una deriva non ricercata, di idioti senza valori e autocoscienza che si attaccano a lui come insetti a un lampione. Lui ha la sua storia e un suo motivo e fa e avanza per sè, voleva punire Murray che lo ha illuso per anni coccolando dalla televisione lui e la madre troia nel letto, con tutto il tempo e vita che ha dedicato a lei, sprecato.
il male che fa quella risata che soffoca quello che si vuole dire, il pianto che si fonde in un ridere per gli altri, ma palese sofferenza latrato.
Inquadrature pazzesche: dalla scalinata mentre ascende col fondo fuori fuoco, nella metro, nel cesso con la musica di cui ho messo il video, e quando esce dalla stanza della vicina col ralenti e ripreso da sotto, lì ricordava james gray ispirato in two lovers con lo stesso gioacchino.

bellissimo il montaggio e girato delle scene nello studio, sceneggiatura solidissima, tensione costruita alla perfezione, per tempi, inquadrature, recitazione.
E i colleghi e il capo cattivo, che lo bistrattano e sempre umiliano, l’unico buono il nano che infatti risparmia, perchè ne riconosce la bontà e gentilezza, che per lui sono i valori da rispettare e che persegue.
pur uccidendo.
la società è da un bel po’ che va avanti così, il film non vuole raccontare questa nostra epoca o spiegarla, o giustificare o esaltare certe esplosioni di rabbia e frustrazione. quello lo fa per attaccarsi alla storia di Batman, per introdurre Joker in tutto quello che poi diverrà e succederà, ma Phillips per me vuole mostrare quello a cui lui tiene, cioè raccontare il malessere di un individuo, e di tanti come lui, buono, che fa di tutto per fare del bene nonostante si ritrovi sempre a subire delle cattiverie ed ingiustizie e gli aiuti non esistono o sono miseri ed illusori.
uscita di sala stavo malissimo, questo è quello che il cinema dovrebbe fare.

scena di cibo da Angst di Gerald Kargl, un film micidiale e maestoso, colonna sonora di Klaus Schulze che nella sequenza della corsa tra gli alberi tira fuori uno score da inchinarsi.
quella salsiccia con la montagnola di senape mangiata a morsi in piedi al bancone del bar fa venire una fame boia nonostante tutto quello che si è visto prima. complimenti.

 

Cos che semo in questo mondo

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Questa immagine mi fa domandare: in generale, quanto saremmo disposti a pagare per questo piatto? Di due fette di pagnotta spesse 1 millimetro, contenenti una fetta di fagiolo spessa altrettanto?
E quanto saremmo disposti a pagare se questo assemblamento fosse nella carta del rinomato ristorante x del famoso chef x?

Viviamo in un periodo misero.
Invece di pensare, valutiamo, di continuo.
Invece di inventare dal niente, eleviamo, miglioriamo, con delle cagate.
A partire dalla lingua, che infatti è il mezzo del pensiero: non si inventano più dei termini, ma è tutto uno spremere le tette inglesi, in modo ridicolo e sterile.
Vige ovunque una ricerca isterica della qualità della forma, che non ha altro contenuto che la forma, appunto.
Ad esempio, in campo gastronomico, da un po’ osservo la stupidaggine dell’aggiunta di olio evo a vari prodotti industriali, che è inutile in quanto olio evo di merda, e il sapore è anche infimo, ma la resa da etichetta o specchietto evidentemente rende a livello di marketing. Ho potuto assaggiare diversi prodotti in questa loro nuova veste- in ammollo in olio extravergine di oliva- e li ho trovati tutti abominevoli. Ma, visto l’andazzo, devo dedurre che molta gente preferisca mangiare quella scritta o quel sapere di olio evo, piuttosto che il sapore reale di questo oliaccio verdognolo e acido che impregna la sostanza.

Di questo nostro periodo-epoca-società non mi piace neanche l’accettazione di porzioni minuscole come sintomo di qualità e di arte, quando invece l’arte per me tende al grande, all’imponenza, ai quadri enormi, allo schermo del cinema, alle sculture gigantesche.
E invece sul cibo ci facciamo fregare o incantare, paghiamo qualcuno che invoca l’arte come suo scudo e fonte, e invece per me la loro fonte è quasi sempre la ricerca del denaro.
E mi fa schifo la moda di questo, in un periodo di magra mondiale, di morti di fame su altri esponenzialmente.
L’elitarismo che cerca palati fatti di monete.
In questa mia società che mi impigrisce, che mi avvilisce.
Non voglio denigrare l’alta cucina in assoluto, bisogna fare delle distinzioni, e le faccio, ma in generale non apprezzo l’idea che per poter far assaggiare certi piatti si debbano imporre certi prezzi e certe quasi impalpabili quantità.
Mi spiego, e lo voglio fare con l’inizio della Polonaise-Fantaisie op. 61 di Chopin.

L’attacco, con quegli accordi col pedale e l’ascensione col “piano”, inchioda qualsiasi ascoltatore in pochi secondi, non si discute, ma se finisse lì, per quanto assoluto e spiazzante e perfetto, sarebbe il vuoto. Infatti ritorna variato due volte, poi torna ancora nell’apoteosi di quello che ormai si conosce, spostandosi più in alto nella tastiera, ancora più piano che è quasi un pianissimo, e col pedale che spande gli armonici fino a toccare le corde giuste dentro il nostro corpo, fino a farle muovere-commuovere. Tutto questo accade in neanche un minuto, ma quel minuto è necessario per arrivare a sentirsi in quel modo, a capire cosa si sta sentendo.

Per spiegarlo in un modo meno pesante: pensiamo a quando aspettiamo l’arrivo del nostro punto preferito in una canzone. A meno che non si tratti dell’intro, serve tutta la parte prima per goderselo. Ascoltarselo precisamente da quando inizia lo svilisce, lo abbatte, toglie la tensione verso quel momento e tutto quello che si crea durante, è necessaria quella preparazione.
Tutto questo per dire che: il bocconcino di estasi resta un bocconcino. Per capirlo bisogna ritrovarlo, riprovarlo, risentirlo subito. La durata ha un minimo di tempo per portare alla percezione.
Quindi non sono molto amante dei piccoli assaggi istantanei e d’effetto. Il mio naso, la mia bocca, la mia lingua e soprattutto il mio cervello, hanno dei tempi più lunghi di quelli che concedono certe circostanze.

Da BONGO E I TRE AVVENTURIERI – episodio TOPOLINO E IL FAGIOLO MAGICO, Walt Disney prod., una delle scene di stenti e privazioni, miseria e “fare la fame” più potenti che abbia mai visto. Quando ero piccola mi faceva soffrire pur incantandomi per la precisione assurda di quelle fette trasparenti di pane e fagioli. Paperino che impazzisce fa paura, il narratore finto tedesco infierisce nel nichilismo e disperazione assoluti.

Un mio vecchio racconto e Pink flamingos

Ho ripescato nei miei vecchi scritti un racconto del 2001.
Si intitola “Ungi” che significa unghie in dialetto modenese, non mi ricordo perchè lo avessi intitolato in dialetto, forse aveva un senso per me all’epoca.
L’ho riletto in questi giorni dopo tantissimi anni, e sono rimasta contenta non tanto per lo stile, che è del tutto acerbo e in certe frasi non mi piace per niente, ma per la lungimiranza che ho avuto in quegli anni, io ne avevo 19, nel prevedere un mercato impazzito e senza senso per quel che riguarda il cibo.
Leggendolo oggi mi fa impressione accorgermi che siamo davvero diventati così.
Il mio era uno scherzo, ma oggi è la realtà, e manda anche avanti in modo consistente l’economia.
A qualcosa di simile aveva pensato anche John Waters, e molto prima, con la scena con l’egg man in PINK FLAMINGOS, nel 1972.

Ecco qui il mio racconto.

UNGI
“Gelso era ricco sfondato, e non aveva neanche i soldi perché tutti sapevano che ne aveva così tanti che avrebbe potuto comprare tutto e per sempre. Non aveva fatto niente in tutta la vita, se non rispettato i bisogni vitali, letto, cantato davanti allo specchio e costruito di tutto con gli stecchi dei gelati. Poi un giorno si stancò e decise che voleva fare qualcosa per gli altri e avere un lavoro che lo tenesse in mezzo alla gente. E un giorno comprò un ex bar. Era quasi tutto vuoto, dipinto di verde e con delle lampadine che penzolavano dal soffitto. Gli faceva schifo quel verde limone e per prima cosa riverniciò tutto il posto di rosso acceso, anche se poi gli venivano in mente le epistassi. Poi comprò tanti tavolini tutti diversi tra loro e tante sedie tutte diverse tra loro, e accatastò tutto in un angolo. Poi portò il suo allevamento di mosche bianche, perché gli piaceva guardarle appoggiate alle pareti rosse, soprattutto mentre si lavavano la faccia. Costruì una vetrinetta, stavolta usando i cucchiai di plastica da caffè. Un bancone c’era già e lui si limitò a rivestirlo di cartapesta. Quando tutto fu pronto e Gelso straripava di compiacimento, venne aperta la degustazione di unghie. Fu uno strepitoso successo, la prima settimana la gente finiva col riversarsi a degustare anche nelle strade vicine, con i piatti neri che esaltavano il chiaro colore delle unghie.
Gelso era diventato felice, si sentiva bene quando le persone entravano da lui e gli sorridevano e dalla catasta di sedie e tavoli sceglievano quelli che più gradivano e andavano a sistemarsi in un qualunque angolo libero, vicino al bancone, in mezzo alla stanza, fuori per le vie del quartiere. In città tutti parlavano di questo posto, di come si stesse bene all’Unghioteca di Gelso, di come tutto fosse fatto apposta per la gente, tutto lì per la gente, non per i soldi, non per vivere, non per obbligo, ma solo e davvero per la gente. Le unghie costavano poco, a parte alcuni tipi che erano un po’ più cari, ma comunque di prezzo ridicolo. Vi erano infatti tanti tipi di unghie che Gelso richiedeva e poi pagava ai diretti proprietari. Le unghie più care, nonché più buone, erano quelle dei bambini. Erano unghie morbide e apprezzate per il loro sapore ogni volta diverso, particolare e variegato. Sotto le unghie dei bambini Gelso ci trovava di tutto: cibo, terra, pezzi di fiori, tempera, ed era proprio questo insieme di residui che conferiva a quelle unghie quel sapore così piacevole e amato dalla gente. Anche le unghie dei chitarristi erano notevolmente apprezzate, e questo per la loro durezza che soddisfaceva il cliente nello spezzarle con gli incisivi e per il loro sapore di ferro o ruggine. Vi erano anche unghie di meccanici dal sapore forte e speziato di benzina e olio motore, unghie di contadini che sapevano di stalla e verdura, unghie curate di segretaria, tenere e dal sapore di pulito, unghie di infermiere, di banchieri, di bibliotecari, ognuna col suo particolare sapore. E la gente andava da Gelso e gustava le unghie, ed era un piacere per lui sentirne i commenti. “ Questo bambino ha colorato coi gessetti. Se sapesse che regalo mi ha fatto!” diceva eccitata una signora mentre si godeva un unghia di indice di bambino. Le unghie degli indici e dei medi erano le più saporite e le più richieste. Quelle dei mignoli erano quelle di sapore meno intenso e di solito le ordinavano persone malinconiche che avevano voglia di vaghi sapori, di non sentire distintamente la vita di una persona nel loro palato, e volevano solo avere una debole percezione di gusto, per sognare un po’. Gelso teneva tutti i vari tipi di unghie ben separati, ogni tipo aveva un suo scaffale.. Gelso procurava delle speciali scatoline da dieci scomparti alle persone che producevano le unghie. I suoi amici Lino e Sauro andavano a casa dei fornitori di unghie, persone di cui Gelso aveva già assaggiato e quindi apprezzato le unghie, e con molta cura e attenzione gliele tagliavano. Fatto ciò riponevano le unghie nelle scatoline che poi portavano all’unghioteca di Gelso e davano ai donatori di unghie cifre esorbitanti di soldi. Gelso quando riceveva le scatoline osservava le unghie e controllava che non vi fossero presenti dei microbi e che tutto fosse ottimo e sano.
Non vi era quindi nulla di cui preoccuparsi e dopo alcuni mesi nessuno osava più criticare l’unghioteca o diffidare di Gelso. Anche i più scettici e tradizionalisti avevano finito con l’amare quelle unghie e col fare visita a Gelso almeno una volta a settimana. Ma poi accadde qualcosa di strano. Le persone che più frequentemente si recavano all’unghioteca cominciarono a crescere di altezza. Un centimetro o poco più, ma era evidente che fossero diventate più alte. E c’era chi ci scherzava su dicendo cose tipo che le unghie erano talmente energetiche che anche a quarant’anni facevano allungare le ossa. Dalla scoperta dell’aumento di altezza passò un mese poi le persone cresciute vomitarono tutte. Nell’arco di mezza giornata tutte si ritrovarono a vomitare. E vomitarono un’unghia , lunga quanto il loro esofago, larga uno o due centimetri e sottilissima. Tutti quelli che avevano mangiato spesso tante unghie, quel giorno vomitarono un’unghia. Gelso era disperato, l’unghioteca fu chiusa, finì tutto, la gente era più triste senza poter andare da lui a mangiare le unghie. Le unghie vomitate furono osservate per diversi giorni, ma nulla di anomalo fu trovato. Erano unghie normali solo più grandi, ma di stessa composizione proteica, uguali a quelle attaccate alle dita. Come avessero potuto formarsi nessuno riuscì a capirlo, ma la colpa fu attribuita esclusivamente a Gelso e ai suoi banchetti di unghie. Coloro che avevano vomitato le unghione furono ricoverati in ospedale, ma dimessi subito dopo una notte perché erano in perfette condizioni di salute. I medici proibirono loro però di mangiarsi le unghie almeno per un anno. Né quelle di altri né le loro. Ma non c’era più pericolo di mangiare quelle degli altri visto che l’unghioteca l’avevano fatta chiudere per sempre. Gelso era diventato infinitamente triste, avevano distrutto la sua idea, la sua vita, l’unica cosa che lo rendeva felice. Nella piazza principale della città vennero esposte le unghie vomitate su un piccolo palco appena sollevato da terra. Più di duecento unghie erano messe in mostra fissate a dei paletti, e a vederle da lontano sembravano tante piccole vele riempite dal vento. Quando Gelso passava per quella piazza si sentiva davvero male e gli veniva da piangere e si metteva a guardare tutti quei gatti che si andavano a fare le unghie sulle unghie esposte. Che fonte di felicità erano quelle unghie per i gatti, mentre per lui erano state solo fonte di uno scoramento assoluto. Tutti i giorni passava di lì e guardava con rabbia quei gatti che si attaccavano a quelle unghie malefiche con le loro. E le unghione non si consumavano per niente, se le osservava da vicino non avevano nemmeno un graffietto. Anche dopo qualche giorno erano perfettamente intatte come se non fossero mai state sfiorate. Ma dopo una settimana notò qualcosa di strano intorno alle unghie, per terra. Giacevano sul palchetto migliaia di peli di gatto, rossi, neri, bianchi, marroni, grigi. Migliaia. Gelso rimase un po’ sconcertato. Il mattino dopo non ce n’erano quasi più perché i netturbini avevano già provveduto a pulire. Ma Gelso la sera attese l’arrivo dei gatti. Arrivarono poco prima del tramonto e subito presero a graffiare quelle unghie vomitate. Gelso li osservò e si accorse che mentre si facevano le unghie, molti peli si staccavano dal loro corpo per cadere a terra. La sera il palchetto era ricoperto ancora da migliaia di peli di gatto. Gelso pensò che fossero quelle unghie malvagie a far perdere i peli ai gatti. Si chinò e fece per raccoglierne una manciata e rimase interdetto. Erano secchi. Secchi e rigidi, non sembravano neanche peli. Li annusò e gli parve profumassero. E allora ne assaggiò uno, era già pronto a sputare ma si accorse che gli piaceva, che aveva un sapore mai sentito, non sapeva nemmeno paragonarlo a qualcosa, non ricordava nessun cibo, si sforzò ma proprio non assomigliava a niente. E assaggiò altri peli di colore diverso e anch’essi avevano dei sapori mai trovati ed eccellenti, tutti diversi tra loro. Ne mangiò centinaia poi guardò il cielo pieno di un’idea. Una peloteca. E se ne andò a casa ridendo.”

Colazioni consistenti e un po’ di video

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Ritorno dopo un anno, un anno complicato e nefasto, ma non mi lamenterò.
Alla fine tutto è finito bene, e non in catastrofe come ho dovuto pensare in alcune settimane.
Riparto non con una ricetta, ma con un consiglio di colazione, che io ho testato nelle mie varianti di ricerca di salato alla mattina, quando quasi tutti intorno a me invece si adagiano sul dolce dei biscotti, torte, latte, ecc.
La foto parla chiaro: si tratta delle cipolle fritte dell’ikea immerse nella panna fresca da cucina. Capolavoro di sapori.
Fa di sicuro male alla salute, lo so, ma allora non fa bene neanche il gnocco fritto pocciato nel caffelatte (tipica colazione modenese al bar), o la dolce brioche burrosa intinta nel cappuccino. Quel che però devo davvero segnalare, a parte la bontà di tale porcata,  è il male che fa all’interazione sociale. Quei frammenti di cipolla fritti sono sì squisiti, ma una volta mangiati vi negheranno qualsiasi nascere di conversazione con altri esseri umani. Per chi se ne infischia, o non ha appuntamenti nella giornata in cui si gusta questa accoppiata eccellente, sappia che sarà come mangiare la versione salata del latte coi cereali, o di uno yogurt col muesli, ma molto più saporito e appagante.
Però poi puzzerete terribilmente, nessuno vorrà conversare con voi, nemmeno chi vi vuole più bene e di solito accetta tutte le vostre debolezze e imperfezioni. No no no e poi no, in questo caso, ho le prove, li ripugnerete anche solo quando oserete emettere un “ciao” o persino un complimento nei loro confronti.

Alcune delle migliori scene di cibo che ho visto quest’anno:

Da GOIN’SOUTH (1978), di Jack Nicholson, un western che mi è piaciuto molto: la scena dove lo stesso Nicholson mangia/risucchia in pochi secondi una mezza gallina bollita. La sua faccia, i suoni e ciucciamenti e tirate su di naso rendono quel pennuto lesso molto desiderabile.

Da BENNY’S VIDEO (1992), di Michael Haneke: la scena della merenda con la pizza surgelata. I particolari con lui che si preoccupa del fatto che la pizza sia ancora rovente, e quindi la pazienza mostrata nell’aspettare di mangiarla perchè lei non si ustioni, e il chiederle se vuole ancora del latte, e i mimi violenti della metro, sono una botta di pena e destabilizzazione devastante, visto poi il seguito.

Da JOHN AND MARY (1969), di Peter Yates: una colazione post notte brava insieme, basata soprattutto su uno scambio di elucubrazioni mentali. Il personaggio di Hoffman-John, in una New York di fine anni  ’60, parlava già come uno dei nostri maniaci della nutrizione e del cibo degli ultimi anni. Uova biologiche, galline nutrite come si deve, ormoni nella carne del pollame che fanno crescere le tette agli uomini… A tutto ciò noi siamo arrivati molto dopo, e con una modalità e un approccio abbastanza ridicoli.
Questa colazione mi ha illuminato su come mangiare le uova alla coque. Le ho sempre mangiate appoggiate al portauovo, con dell’attesa in mezzo tra uno e l’altro, dato che un uovo non mi basta mai. Qui il caro John mi ha fatto vedere che basta prendere una tazza e versarcelo dentro, senza doverle bollire in successione,  e senza sprecare neanche un rivolo di albume o tuorlo che tracima dal guscio e finisce sul fondo del portauovo raffreddandosi.  Ovvio che da allora me ne faccio tre in una botta e me le gusto senza perdite, e il sale si distribuisce molto meglio.

Da IL BANDITO (1946), di Alberto Lattuada: la scena coi due amici, diventati tali dopo anni da prigionieri di guerra in Germania, che tornano a Torino in un viaggio in treno e poi in camion. Qui sul camion si raccontano le cose semplici che vorrebbero fare appena tornati a casa, e su cui tanto hanno fantasticato durante la guerra: una bistecca alla fiorentina, un fiasco di vino, l’alberello di natale, stare coi propri cari.
Cose normali, belle e genuine, mentre le sentivo pronunciare da loro due, ma che inserite in questo periodo storico, assurdo e isterico, almeno in Italia, mi hanno fatto venire in mente quante critiche potrebbero ricevere se tornassero da una guerra adesso questi due poveri disgraziati. E la bistecca no, perchè è il male e sei una merda se la mangi, e l’albero di natale no, perchè non rispetti gli alberi, e anche se sintetico offende comunque chi non vuole il natale… E mi chiedo: ma tutti quelli che oggi li criticherebbero, hanno mai fatto la guerra? Sono mai stati davvero col loro corpo e la mente in mezzo a una guerra?
Le persone a cui alludo lo so che non ci sono mai state. Sono predicatori e lottatori melliflui e finti, e quel che professano per me è guasto, è un pretesto per un altro fine, è posticcio, è disonesto. Se no starebbero solo zitti. Non dico in tutti i casi, ma in molti, dovrebbero solo starsene zitti.

Intermezzo – SpongeBob – il film/ Io e mia sorella/Machine Gun McCain

Come al solito ne è passato di tempo dall’ultimo post. Ho vari pensieri da buttare giù e anche qualche ricetta, ma prima volevo mettere un po’ di scene che mi fanno stare bene.

Da SPONGEBOB-IL FILM, di Stephen Hillenburg: la scena con l’amato Spongy triste e sconsolato che vuole tornare a casa, ma poi cambia idea sentendo che l’amico Patrick Star ordina una “tripla coppa gelato Goober”, e da lì si sfondano, ordinandone ancora tante, fino al “cameeerieroooo” (amo il doppiaggio di Spongebob), e dopo ci sarà l’hangover.

Da IO E MIA SORELLA, di Carlo Verdone: la scena della cena in un ristorante di Budapest, con Verdone che cerca di intortare, per altri fini, una responsabile di un istituto per minori. Purtroppo di quel che mangiano non si vede una mazza, ma gli ultimi due secondi mi fanno troppo ridere, anche alla centesima visione.

Da GLI INTOCCABILI – MACHINE GUN MCCAIN, di Giuliano Montaldo: la scena con Cassavetes che, finito di aspirarsi un hamburger,  riceve il suo hot dog e lo ricopre di senape “come se non ne avesse visto uno per anni” (e in effetti è appena uscito di prigione dopo 15 anni dentro). A parte il fatto che: che due maroni le frasi che la gente ti dice quando mangi tanto, o aggiungi tante salse o contorni. Dipende sempre come vengono espresse, chi ce le dice, il tono, il contesto, però alla lunga diventano una costante fastidiosa. È così incontenibile la voglia di esternare queste osservazioni su come o cosa mangiano gli altri mentre stanno cercando di mangiare in pace?
Ma più che altro mi interessa sapere: che canzone è quella che si sente in questa scena? Sono solo pochi secondi, ma
è già bella, capisco solo poche parole e in rete non trovo niente. Se qualcuno la riconosce o ci arriva mi faccia sapere. Grazie 🙂

Borbotto peggio di un vecchio – Brivido nella notte/Intermission

Torno lamentandomi, purtroppo è un classico per i miei post.
Ci sono molte cose che mi danno fastidio riguardo al cibo.
Di una ne ho già parlato anche in precedenza: i nomignoli, diminutivi, smancerie stucchevoli nel descrivere gli alimenti, modi di dire, mode di dire, lemmi italiani dal suono irritante, poi gli inglesismi.
In questa scena da BRIVIDO NELLA NOTTE di Clint Eastwood c’è lei, che oltretutto arriva a sorpresa, tutta “giuliva e carica di provviste” che parte giudicando il frigo di Clint, poi lo inquadra come tipo da bistecche e patate, e già qui sarebbe da sbattere fuori di casa, ma poi osa anche proferire tali parole: “cenetta coi fiocchi” e “assaggino”.

Su questo aspetto in molti casi comunque riesco a soprassedere, alcuni termini ogni tanto li usano anche persone che stimo e di cui mi fido a livello enogastronomico, e comprendo che in certi casi sia difficile spiegarsi facendo a meno di certe espressioni.

Una cosa che invece non riesco a capire, e biasimo e detesto fortemente, è la reticenza nel condividere le proprie ricette, la gelosia dei propri saperi e delle proprie invenzioni, fino al punto da volerle negare alla conoscenza di altri.
Nella rete dei blogger di cibo questo è praticamente inesistente: tutti condividono, spiegano, donano a chiunque. Ma nella vita vera invece mi capita, e non così di rado, di imbattermi in persone che mi negano una loro ricetta, che alla mia richiesta rispondono “non te la do, è un segreto, è mia”.
Ogni volta non riesco a crederci, e mi inalbero anche, per la pochezza di un pensiero del genere, di una visione della cultura così svilente, di una mentalità così piccola e ignorante.
Non voglio essere offensiva, ma non riesco a difendere questo atteggiamento.
Posso anche capire l’omettere un trucco o un ingrediente speciale, ma negare la ricetta intera no.
Tanto nessuno saprà mai rifare allo stesso modo quello che fa un’altra persona, la mano nell’esecuzione è almeno metà dell’opera.
Se tutti pensassero come loro sarebbe un mondo orribile, un mondo con tutti gli spartiti di musica bruciati, un mondo senza libri, senza riviste, dove ognuno cucina solo quello che sa cucinare di suo, e basta. Ma poi grazie a chi? E il fuoco grazie a chi? E gli elettrodomestici grazie a chi? E gli ingredienti grazie a chi? Niente grazie alla loro saccoccia smunta, ridicola e pateticamente difesa, ma a tutto quello che è stato condiviso e tramandato nella storia.
Da questa scena da INTERMISSION di John Crowley, c’è la condivisione dell’aggiunta al caffè (o è tè? mannaggia anche a loro che non lo rendono esplicito) di una salsa piccante, che evidentemente è una gran bella scoperta per chiunque. Io di mio posso donare all’umanità la verità che il Mars intinto nella maionese spacca il culo. Anche lo strolghino sulle fette biscottate. E che dei pesci, alla griglia, al cartoccio ecc, sono ottimi gli occhi.

Potato salad – “I compari” e la preghiera di Clint prima di mangiare

Torno sul blog dopo un tot di tempo, le scene ce le ho, la ricetta anche, ma senza foto.
Fino a ieri era estate e campavo a potato salad, nel senso che me la sono fatta spesso. Solo pochi anni fa una mia amica mi narrava di un ragazzo che per un certo periodo per saltarci fuori coi soldi mangiava pane e cipolle, e io “Ma come fa tutti i giorni? Ma crude?” e lei mi aveva spiegato che era un modo di dire. Non lo avevo mai sentito e mi sembrava verosimile.
Questa insalata di patate l’ho mangiata sempre fatta in casa perchè, nonostante abbiano aperto vari locali di cucina americana (il piatto è di origine tedesca ma negli states si trova dappertutto e in questa versione è tipico), non l’ho mai vista nei loro menu (parlo della mia zona, probabile che a Milano o Roma sia reperibile ovunque).

La ricetta: bollire 6 patate grandi per 30 minuti almeno, farle raffreddare e togliere la pelle. Tagliare a pezzi le patate, 2 coste di sedano, 2 uova sode, qualche cetriolino sottaceto, 2 cipollotti.
Unire tutto e aggiungere una tazzina di erba cipollina tritata e una di prezzemolo tritato, 2 cucchiaini di senape (io uso sempre quella maille- dijon originale), 2 cucchiaini di aceto di mele, sale, pepe, e poi cominciare ad aggiungere delle cucchiaiate di maionese e yogurt greco (rapporto 2:1) finchè non si arriva alla cremosità che si vuole.

Da I COMPARI di Robert Altman, la scena della cena dove Julie Christie ordina 4 uova fritte, lo spezzatino e un the molto forte, mentre Warren Beatty chiede un doppio whiskey con un uovo crudo.
Lei spazzola tutto in un modo da restare incantati per l’esecuzione, i movimenti della bocca e del braccio, le dita pulite sul tovagliolo, in un tempo da apnea ma con una grande grazia.
Poi arriva lui che aspetta il compimento dell’opera, e finalmente rompe e fa cadere l’uovo crudo nel suo whiskey doppio.
Dopo c’è un ritratto altrettanto pieno di grazia di Beatty in solitudine, ubriaco, rifugge dall’idea dell’obbligo di dover fare il bagno, di obbedire a lei, prova a chiudere l’orologio, fa due rutti, una pausa e ne caccia un altro magnifico, prende la bottiglia senza farla cadere, e sì, c’è poesia in tutto questo (come dirà lui stesso più avanti nel film), la chitarra di leonard cohen che si sente non si trova lì per caso come un gingillo sonoro.


Chiudo con la benedizione di Clint, dal suo BRONCO BILLY, la più bella preghiera che abbia mai sentito prima di cominciare a mangiare.

Polenta col sugo di salsicce – The wire e Red hill

polenta salsicce

Sono tornata con la ricetta sbagliata, perchè non so in quanti in questi giorni avranno voglia di polenta.
Però io ne ho sempre voglia, e comunque di inverno in tanti beviamo le birre gelide all’aperto per fumare dove magari si è a -1°, e alcuni cominciano a prendere il gelato a marzo e lo mangiano per strada che fa ancora freddo.
Qualche giorno fa in balcone ho grigliato per un’ora e non è che fosse tutto questo refrigerio stare vicino alla griglia.
Quindi se uno a luglio può grigliare dei suini interi può anche girare una pentola di polenta.

Il sugo con le salsicce da mettere sopra la polenta finchè il giallo non sparisce lo faccio così:
tritare non troppo finemente 1 costa di sedano, 1 carota grande, 1 cipolla di quelle piatte, ¼ cipolla bianca.
Togliere il budello a 8 salsicce di maiale e tagliarle a pezzi.
Scaldare 3-4 cucchiai di olio evo e soffriggere le verdure, poi aggiungere le salsicce.
Quando si sono rosolate versare mezzo bicchiere  di vino (io ci metto sempre il lambro)  e farlo evaporare.
Aggiungere una scatola di pomodori a cubetti o di pelati, 1 ramo di rosmarino, salare e lasciare cuocere almeno un’ora.

Un paio di belle scene:
dalla serie tv THE WIRE: Omar che in macchina mangia una crab cake di Faidley, direi per forza tappa fissa se uno passa da Baltimora.

da RED HILL di Patrick Hughes: un momento di quiete per l’evaso e assassino, che comunque dopo pochi secondi  di dolce pannoso si interrompe infastidito dai suoni dall’altra stanza di uno a cui ha appena fatto schioppare il culo, e dai messaggi via radio che fanno capire che la caccia è iniziata.